ETICA E ENDOSCOPIA

Lettura Magistrale
tenuta in occasione del
CONGRESSO DELLA FEDERAZIONE DELLE SOCIETA’ DELLE MALATTIE DIGESTIVE
Perugia, 22 Novembre 2000
DAL DOTT. LORENZO BONARDI
EX PRESIDENTE
SOCIETA’ ITALIANA DI ENDOSCOPIA DIGESTIVA
(SIED)

Sig. Presidente, Cari amici e colleghi,
Quando l’amico Cipolletta mi ha chiesto quale argomento avrei preferito trattare in questa lettura magistrale, dopo un paio di temi poco convincenti gli ho proposto d’impulso questa “etica ed endoscopia” che lo ha immediatamente entusiasmato. Solo a mente fredda ho cominciato a preoccuparmi di avere scelto un argomento che è molto più adatto ad un filosofo che non ad un endoscopista. Probabilmente l’impulso che mi aveva spinto a suggerire questo titolo senza pensarci più di tanto era dettato dal desiderio inconscio di una riflessione su quello che è stato il mio modo di pensare e di comportarmi e per estenso dell’ambiente di cui faccio parte. Da qualche anno avverto la necessità di riavvicinarmi a quel comportamento ideale che più si identifica con il principale insegnamento della medicina ippocratica, il curare innanzitutto il benessere e gli interessi dei malati.  Per 25 secoli questo è stato il più importante e indiscusso principio etico che ha guidato infinite generazioni di medici. Ma l’etica medica oggi non è più così semplice, è molto più articolata, spazia dal campo della bioetica a quello dell’etica sociale, la medicina ha subito una trasformazione tecnologica straordinaria e quello stesso progresso tecnologico, che fa ritenere alla gente comune che i medici possano e debbano diagnosticare e guarire qualunque malattia, è dalla gente stessa non raramente guardato con diffidenza, spesso temuto. Il medico è stato per millenni il padre-padrone del suo cliente-paziente, la possibilità per il malato di partecipare attivamente al processo diagnostico-terapeutico non veniva neanche presa in considerazione. Il concetto dell’autodeterminazione ha stravolto questo rapporto; non è più il medico che decide quello che è bene per il paziente, ma il medico può oggi solo consigliare il paziente su quello che egli ritiene essere la scelta migliore, e questo in un’ottica globale che tenga conto non solo della sua patologia, ma anche della sua personalità, della sua età, del suo stato sociale, della sua condizione economica, della sua stessa professione. E’ nata la bioetica, si è fatto strada prepotentemente il consenso informato e sempre di più viene riconosciuto valido, anche dalla legge, il principio dell’autodeterminazione del paziente. C’è il pericolo che il paziente finisca per imporre al medico modelli che gli derivano non da una corretta educazione alla salute, ma da informazioni di tipo consumistico  che hanno più il sapore della pubblicità prezzolata che della informazione scientifica. Si potrebbe arrivare alla situazione di dover concedere al singolo tutto quello che desidera. E’ evidente che così non può essere, i costi della moderna medicina tecnologica sono altissimi, hanno già superato la nostra capacità di pagarla, non è tollerabile l’utilizzo antieconomico delle risorse perché, come già diceva quasi cento anni fa Pareto, “quello che si spreca viene sottratto agli altri”.  E’ nata e si è sviluppata quindi una terza etica prettamente sociale, l’etica dell’organizzazione il cui fine è ottimizzare l’uso delle risorse. E’ inevitabile che la società si difenda per non soccombere ed è inevitabile che i burocrati condizioneranno sempre più pesantemente le scelte dei medici demandando loro unicamente le decisioni sulle priorità; i medici dovranno giustificare e motivare le loro scelte ai pazienti, da una parte, e ai gestori della sanità, dall’altra. E’ una forma di etica globale nuova che condiziona ogni giorno e ogni minuto il nostro operato creando non pochi problemi di adattamento ai medici della mia generazione. Ma è giusto che sia così. Probabilmente i medici più giovani sono già sensibilizzati e pronti a convivere con questa nuova realtà fatta di conoscenze mediche, autodeterminazione del paziente e valutazione dei costi in rapporto ai benefici.

 Medicina pubblica e privata sotto questo punto di vista non sono distanti, il medico privato che si comporta in modo disonesto finalizzato allo sfruttamento economico del paziente non va molto lontano, ma non è molto diverso il medico pubblico che spreca risorse con un comportamento superficiale e ingiustificato, o giustificato da parametri solo apparentemente più nobili del lucro puro e semplice. La libera professione si presta ad abusi che intaccano molto di più il portafoglio che non l’integrità fisica del paziente, nel pubblico può avvenire il contrario. Un professionista furbo anche se disonesto sa benissimo che non può permettersi di far correre rischi inutili ai suoi pazienti, rischi che invece troppo spesso sono sottovalutati nella medicina pubblica dove un certo anonimato sembra permettere e coprire pratiche altrimenti discutibili. Ha fatto scalpore un lavoro pubblicato tre anni fa sulle ERCP eseguite negli USA. Il tasso di complicanze nelle strutture pubbliche, e universitarie in particolare, era molto superiore a quello dell’attività privata. E’ sembrato un dato paradossale, ma la realtà è molto istruttiva: nel privato la prima regola è non correre rischi, gli operatori conoscono esattamente i propri limiti, si attengono scrupolosamente alle indicazioni e trattano molto meglio i loro pazienti. Nel pubblico la realtà è molto diversa: vi afferiscono è vero i casi più difficili, nelle sedi universitarie e nei centri a più elevata specializzazione si sperimentano nuove metodiche, ed è giusto che sia così, ma è anche vero che nel pubblico le indicazioni spesso non vengono rispettate, si opera con superficialità e talora con tecnica approssimativa perché non sempre gli operatori sono all’altezza del loro compito,  perché troppo spesso i numeri e le casistiche contano più delle persone, perché l’ambizione e il protagonismo prevalgono sulla logica e sulla morale. Già alcuni anni fa nell’ambito della SIED si era sentita la necessità di affrontare le problematiche medico-legali legate all’endoscopia ed era emerso che i problemi insorgevano per il mancato rispetto delle indicazioni e per la scarsa cura dedicata al rapporto di fiducia che deve legare medico e paziente. 

Se oggi ho scelto di parlarvi di etica piuttosto che di sfinterotomie è perché sono arrivato ad un punto della mia vita dove si incominciano a tirare le somme, e se ci sono stati errori ed omissioni che riguardano il mio, il nostro comportamento, penso che sia giusto parlarne, così come in una relazione scientifica si deve parlare non solo dei risultati positivi ma anche degli insuccessi. Vi parlo di etica e di endoscopia perché l’endoscopia è il mio mondo, perché l’endoscopia non è cosa di poco conto nè trascurabile, perchè l’endoscopia ha oggi un impatto sociale di tutto rispetto, perchè vorrei che gli endoscopisti fossero tutti medici esemplari, umanamente e culturalmente. Purtroppo invece l’endoscopia riunisce in sé anche una serie di caratteristiche negative che si prestano ad un pungente confronto con l’etica e la morale.

L’endoscopia è soggettiva sotto molti aspetti, a cominciare dalle indicazioni, sulle quali da pochissimi anni si sta facendo ordine con linee guida ufficiali. Ma voglio limitare le mie considerazioni ad un aspetto solo, il referto conclusivo di ogni endoscopia che ne costituisce l’atto formale più importante. Quello che l’endoscopista vede e fa viene tradotto in parole dai molti significati controversi: da 25 anni Maratka e i suoi allievi e discepoli cercano di ottimizzare e rendere universale la terminologia endoscopica. La descrizione dei quadri endoscopici dipende dalla cultura, dall’esperienza, dalla sensibilità, ma anche dall’onestà morale e culturale dell’operatore; più di una volta ho avuto il sospetto che la vaghezza di alcuni referti fosse voluta per mascherare l’impreparazione o per nascondere errori e sottrarsi a precise responsabilità. Nella grande maggioranza dei casi l’operatore è in buona fede, ma le sue responsabilità rimangono enormi: ci sono endoscopisti che vedono esofagi di Barrett dappertutto, o gastriti, o sclerosi dello sfintere di Oddi. La negazione per principio dello status di normalità, che come sappiamo interessa almeno il 60% dei nostri pazienti, ha come conseguenza la creazione di malati ove malattia non c’è: il paziente catalogato con superficialità come gastritico si porterà dietro tutta la vita questa etichetta con possibili pesanti ripercussioni per sé, per il suo ambiente famigliare, per la società stessa che deve provvedere a curarlo; il barrettiano vive terrorizzato dalla sua malattia e deve essere continuamente rassicurato e controllato. Ma quanti veri Barrett con potenzialità evolutiva ci sono? E quante papille sono veramente sclerotiche o non è questa solo una indicazione di comodo, una forma di autoconvincimento per giustificare una sfinterotomia non indispensabile?

Purtroppo esiste anche la cattiva fede, per motivi che vanno dal lucro puro e semplice, all’arricchimento di casistiche modeste, al desiderio di protagonismo, all’ambizione di sentirsi al centro di qualcosa. 5-6 anni fa ho assistito alla relazione di un giovane medico di un piccolo ospedale di una piccola città di provincia che vantava una casistica personale impressionante di pancreatiti acute trattate in ERCP, quando appena se ne parlava e si cercava di capirne i reali vantaggi; di sicuro non coltivava interessi di ampio respiro, quanto il desiderio di sentirsi per 5 minuti al centro dell’attenzione. 

L’endoscopia è invasiva ed è questo uno dei punti più dolenti, sotto tutti i punti di vista. L’endoscopia mette a dura prova la resistenza fisica e psichica dei pazienti se non viene fatta con le dovute cautele. Oggi nessuno va da un dentista che operi con mano pesante e senza anestesia, e allora perché mai, mi chiedo, esistono ancora molti endoscopisti che, con somma indifferenza per le sofferenze dei loro pazienti, non provvedono a qualche forma di sedazione o semplicemente non assumono un atteggiamento più umano? Altrettanto efficace del valium è la delicatezza con cui si fanno le endoscopie. Bisogna mettere il paziente a proprio agio, tranquillizzarlo, non trattarlo come un caso clinico spersonalizzato o una pratica da sbrigare il più rapidamente possibile, ma per fare questo occorre una certa dose di sensibilità e molto impegno personale. Christofer Williams vent’anni fa raccomandava di parlare in continuazione con i pazienti sottoposti a colonscopia, i pazienti la tollerano molto meglio e Williams viene considerato uno dei migliori endoscopisti al mondo. La SIED ha creato nel 98 una commissione di studio sulla sedazione in endoscopia; è stato fatto un censimento che ha evidenziato come in Italia ancora oggi il 43% degli endoscopisti non pratica, né prende in considerazione alcuna forma di sedazione; probabilmente la percentuale è molto più elevata perché solo il 71% dei centri di endoscopia ha risposto al questionario e se il restante 29% non ha risposto è perché non si pone nemmeno problema. Il dato è sconvolgente perché oltre alla indifferenza di molti colleghi per le sofferenze dei loro pazienti e l’atteggiamento arrogante di fronte alle loro rimostranze   dimostra anche la loro incapacità a rendersi conto che una migliore compliance non significa solo maggiore comfort, ma anche e soprattutto un esame fatto meglio. Come ha detto Cosentino nella sua introduzione alle linee guida per la sedazione in Endoscopia Digestiva edite dalla SIED  “da tempo l’endoscopia è uscita dalla fase pionieristica e le discussioni attuali non riguardano tanto quello che l’endoscopia può fare, ma come l’endoscopia deve essere fatta. L’esame endoscopico viene ancora visto da gran parte dell’utenza come un evento traumatico e non particolarmente gradito.” 

L’endoscopia è spesso pericolosa, e dicendo questo non scopro nulla di nuovo, riferisco una realtà ben nota sulle cui reali cifre c’è molto da discutere. Anni fa Rigo aveva ideato un registro nazionale delle complicanze; non so se sia ancora attivo, so che avevo smesso di comunicargli i miei dati quando avevo scoperto che il mio servizio di endoscopia era gravato da un tasso di complicanze doppio o triplo rispetto ai pochi altri centri che avevano partecipato all’iniziativa. Ho cercato di capire perché questo avveniva e ho individuato 4 possibili cause:

la prima, che io e i miei assistenti fossimo veramente maldestri, 

la seconda, che il concetto di complicanza  non avesse lo stesso significato per tutti, 

la terza, che la diffidenza o semplicemente la vergogna trattenesse gli endoscopisti dal denunciare le proprie complicanze e indirettamente i propri errori, 

la quarta, che è forse la peggiore, è la non consapevolezza di aver commesso errori e congedare il paziente senza preoccuparsi minimamente delle possibili evoluzioni negative di quanto è stato fatto. 

L’endoscopia per decenni è stata improvvisazione, esercitata da operatori autodidatti perché non c’erano scuole e poche continuano ad esserci, ma scuole vere che insegnino agli aspiranti endoscopisti non solo a descrivere fotograficamente quanto hanno visto, ma a valutare il paziente in un contesto clinico globale che comprenda l’anamnesi, gli esami già eseguiti, i sintomi e solo alla conclusione del tutto l’interpretazione del quadro endoscopico nel modo più consono e finalizzato alla migliore terapia possibile; fare endoscopia in questo modo significa essere consulenti veri e creativi e non dei “tubisti acefali” come siamo stati spregiativamente definiti, non senza un fondo di verità. Purtroppo il desiderio di apprendimento degli endoscopisti più responsabili si concretizza ancora oggi nella frequenza a brevi e costosissimi corsi pratici o a simposi di live endoscopy dove si parla di tecnica e assai poco di indicazioni e ancora meno di rispetto per il malato e di ottimizzazione delle risorse. Chi veramente ha voluto imparare lo ha fatto a sue spese con lunghi soggiorni in centri di endoscopia quasi sempre all’estero  ed è tornato a casa con la consapevolezza, prima di tutto, che un certo tipo di endoscopia è dura, difficile, che il training non termina mai, che il pericolo, l’incidente e la complicanza sono sempre dietro l’angolo. L’errore più grande che ha fatto l’endoscopia, nella smania di conquistare spazi e consensi sempre più vasti, è stato quello di minimizzare le proprie difficoltà, si è preoccupata di sottolineare solo l’apparente semplicità di tecniche che in realtà sono estremamente sofisticate e complesse, si è presentata nelle manifestazioni live più come un happening che come incontri di cultura e di discussione.  I live endoscopy sono stati certamente un mezzo validissimo di propaganda e di diffusione dell’endoscopia, e come tali potevano essere accettati all’inizio dell’avventura, ma hanno falsato straordinariamente la realtà facendo sembrare facili in mano ai maestri dell’endoscopia interventi che nascondono anni di studio e di applicazione. 

L’attività endoscopica non è regolamentata in alcun modo. C’è solo da augurarsi che là dove manca il ritegno e il senso di responsabilità individuale intervenga il tanto sospirato e atteso processo di certificazione, che non sia però una delle solite farse all’italiana, ma una vera autentica valutazione della organizzazione e della capacità degli operatori. 

L’endoscopia è costosa,  conosciamo tutti le valutazioni emerse dallo studio SIED di alcuni anni fa.  Di sicuro i costi dell’endoscopia sono ulteriormente lievitati per effetto di esigenze strumentali e ambientali più adeguate e consone  al terzo millennio. Una stima di un milione di endoscopie l’anno in Italia è un dato verosimile, probabilmente inferiore alla realtà. Se tutte venissero eseguite nelle condizioni ottimali il costo globale dell’endoscopia in Italia potrebbe essere compreso tra 500 e 1000 miliardi; non è tanto in assoluto, ma se pensiamo che la sanità assorbe in Italia 100 mila miliardi, di cui solo il 45% è destinato agli ospedali, con la volontà politica di ridurre ulteriormente questa percentuale, ci rendiamo conto che dobbiamo ottimizzare i costi dell’endoscopia, che una programmazione va fatta e in tempi brevi, che non possiamo cullarci nella illusione che l’endoscopia continui ad essere l’attività trainante della gastroenterologia, che la gastroenterologia stessa è in pericolo se tutto il sistema non viene rivisitato.

Il quadro che vi ho presentato sembra improntato al pessimismo più bieco, i più vecchi di noi ricordano le famose invettive di Bartali, “l’è tutto da rifare”. Non è così ovviamente, l’ambiente dell’endoscopia è fondamentalmente sano, gli endoscopisti (quelli almeno che hanno fatto dell’endoscopia la loro ragione di vita) sono gente seria, preparata culturalmente, operativamente e umanamente, è gente consapevole del suo ruolo, che cerca, senza ricorrere a compromessi, e ottiene dalla sua attività le massime gratificazioni professionali e morali, è gente che contribuisce al progresso della medicina. Ma occorre mirare sempre alla perfezione, non accontentarsi mai, e per fare questo bisogna fare ogni tanto un esame di quello che si è fatto e capire dove si è sbagliato. Lo facciamo abitualmente con la nostra casistica; perché non possiamo farlo con la nostra coscienza? 

Anch’io sono passato attraverso molti di questi errori, non sono stato indenne dalla tentazione di fare più esami di quanto non fosse strettamente indicato e necessario: ipertrofizzare l’attività significa acquisire maggiore visibilità, mi è servito a suo tempo per esaltare l’importanza dell’endoscopia e farla diventare una necessità indispensabile agli occhi della gente e delle amministrazioni, è servito per avere e creare primariati, per aumentare gli organici, avere più strumenti e ambienti sempre più sofisticati. Oggi ho capito che le più grandi soddisfazioni della nostra professione derivano da quello che riusciamo a fare per i nostri pazienti e il modo in cui lo facciamo, e che l’avidità, il carrierismo, il protagonismo sono aspetti che spesso nulla aggiungono e molto invece tolgono alla bellezza della nostra professione.

Lorenzo Bonardi